Umberto Eco – Il mondo di Charlie Brown

Quella che segue è parte del saggio di Umberto Eco che costituiva la prefazione alla prima raccolta italiana delle strisce di Schulz, Arriva Charlie Brown, pubblicata nel 1963 dalla Milano Libri.

[…] Il mondo dei Peanuts è un microcosmo, una piccola commedia umana sia per il lettore candido che per quello sofisticato.
Al centro sta Charlie Brown: ingenuo, testone, sempre inabile e quindi votato all’insuccesso. Bisognoso, sino alla crisi, di comunicazione e “popolarità”, è ripagato dalle bambine matriarcali e saccenti che lo attorniano col disprezzo, le allusioni alla sua testa rotonda, le accuse di stupidità, le piccole malvagità che colpiscono a fondo. Charlie Brown impavido ricerca tenerezza e affermazioni da ogni parte: nel baseball, nella costruzione di aquiloni, nei rapporti con Snoopy, il suo cane, nei contatti di gioco con le ragazze. Fallisce sempre. La sua solitudine si fa abissale, il suo complesso di inferiorità pervasivo – colorato dal sospetto continuo che prende anche il lettore, che Charlie Brown non abbia alcun complesso di inferiorità, ma sia veramente inferiore. La tragedia è che Charlie Brown non è inferiore. Peggio: è assolutamente normale. E’ come tutti. Per questo marcia sempre sull’orlo del suicidio o quanto meno del collasso: perchè cerca la salvezza secondo le formule di comodo propostegli dalla società in cui vive (l’arte di conquistare gli amici, come divenire un intrattenitore ricercato, come farsi una cultura in quattro lezioni, la ricerca delta felicita, come piacere alle ragazze… a lui lo hanno rovinato, ovviamente, il dottor Kinsey, Dale Carnegie, Erich Fromm e Lyn Yutang).
Ma poichè lo fa con assoluta purezza di cuore e nessuna furbizia, la società e pronta a respingerlo nella persona di Lucy, perfida, sicura di sè, imprenditrice a profitto sicuro, pronta a smerciare una sicurezza del tutto fasulla ma di indubbio effetto (sono le sue lezioni di scienze naturali al fratellino Linus una accozzaglia di improntitudini che a Charlie Brown danno male allo stomaco, “I can’t stand it”, non posso sopportarlo, geme lo sciagurato, ma con quali armi si può arrestare la malafede impeccabile quando si ha la sciagura di essere puri di cuore?…).
Charlie Brown è stato definito “Il bambino più sensitivo mai apparso in un fumetto, capace di variazioni di umore di tono shakespeariano” (Becker) e la matita di Schulz riesce a rendere queste variazioni con una economia di mezzi che ha del miracoloso: il fumetto, sempre pressochè aulico, in una lingua da Harvard (raramente questi bambini scadono nel gergo o peccano di anacoluti) si unisce a un disegno capace di dominare, in ogni personaggio, la minima sfumatura psicologica. Così la quotidiana tragedia di Charlie Brown si graffisce ai nostri occhi con una incisività esemplare.
Per sfuggire a questa tragedia della non-integrazione, la tavola dei tipi psicologici offre alcune alternative. Le ragazze vi sfuggono in virtù di una caparbia autosufficienza e alterigia: Lucy (una géante, da ammirare sbigottiti), Patty e Violet non hanno incrinature; perfettamente integrate (vogliamo dire alienate?) trascorrono dalle sedute ipnotiche davanti al televisore, al salto della corda e ai discorsi quotidiani tessuti di cattiveria raggiungendo la pace attraverso l’insensibilità.
Linus, il più piccolo, è invece già carico di tutte le nevrosi, l’instabilità emotiva sarebbe la sua condizione perpetua, se con la nevrosi la civiltà in cui vive non gli avesse già offerto i rimedi: Linus ha già dietro alle spalle Freud, Adler e forse anche Binswanger (tramite Rollo May), ha individuato nella copertina da letto della prima infanzia il simbolo di una pace uterina o di una felicità puramente orale… Dito in bocca e coperta (il blanket) appoggiata a una gota (possibilmente, televisore acceso, davanti a cui stare appollaiato come un indiano, ma al limite anche niente, un isolamento di tipo orientale, attaccato ai suoi simboli di protezione), ecco che trova il suo “sentimento di sicurezza”. Toglietegli il blanket e ripiomberà in tutte le turbe emotive che lo guatano giorno e notte. Poichè – va aggiunto – ha assorbito con l’instabilità di una società nevrotica, Linus ne rappresenta il prodotto tecnologicamente più agguerrito. Là dove Charlie Brown non riesce a costruire un aquilone che non precipiti tra le fronde di un albero, Linus rivela improvvisamente, a tratti, abilità fantascientifiche e maestrie vertiginose: costruisce giochi di allucinante equilibrio, colpisce a volo un quarto di dollaro con la cocca della copertina schioccata come una frusta (”the fastest blanket in the West!”).
Schroeder al contrario trova la pace nella religione estetica: seduto al suo piccolo pianoforte fasullo da cui trae melodie ed accordi di complessità trascendentale, sprofondato in una sua totale adorazione per Beethoven, si salva dalle nevrosi quotidiane sublimandole in un’alta forma di follia artistica. Nemmeno l’amorosa costante ammirazione di Lucy riesce a smuoverlo (Lucy non può amare la musica, attività poco redditizia di cui non comprende la ragione, ma ammira in Schroeder un vertice irraggiungibile, forse lo stimola questa adamantina ritrosia del suo Parsifal in sedicesimo, e persegue con cocciutaggine la sua opera di seduzione senza neppure scalfire le difese dell’artista): Schroeder ha scelto la pace dei sensi nel delirio dell’immaginazione. “Non dica male di questo amore, Lisaweta; è buono e fecondo. Vi è dentro nostalgia e melanconia, invidia e un poco di disprezzo, e una completa, casta felicità” – non è Schroeder naturalmente, è Tonio Kroeger, ma il punto è questo; e non per nulla i bambini di Schulz rappresentano un microcosmo dove la nostra tragedia e la nostra commedia è tutta rappresentata.
Anche Pig Pen avrebbe una inferiorità di cui dolersi: è irrimediabilmente, agghiacciantemente sporco. Esce di casa lindo e pettinato e dopo un secondo le stringhe gli si slacciano, i pantaloni scendono sulle anche, i capelli si intristiscono di forfora, la pelle e gli abiti si coprono di uno strato di fango… Conscio di questa sua vocazione all’abisso, Pig Pen fa della sua situazione un elemento di gloria: “Su di me si addensa la polvere di innumerevoli secoli… Ho iniziato un processo irreversibile: chi sono io per alterare il corso della storia?” – non è un personaggio di Beckett, naturalmente, è Pig Pen che parla, il microcosmo di Schulz raggiunge le estreme propaggini della scelta esistenziale.
Antifone continua ai patemi degli umani, il cane Snoopy porta all’ultima frontiera metafisica la nevrosi da mancato adattamento. Snoopy sa di essere un cane; ieri era una cane; oggi è un cane; domani forse sarà ancora un cane; per lui, nella dialettica ottimistica della società opulenta che consente salite da status a status, non vi è alcuna speranza di promozione. Talora tenta una risorsa dell’umiltà (”noi cani siamo così umili…” sospira untuoso e consolato), si attacca teneramente a chi gli promette stima e considerazione. Ma di solito non si accetta e cerca di essere ciò che non è; personalità dissociata se mai ve ne furono, gli piacerebbe essere un alligatore, un canguro, un avvoltoio, un pinguino, un serpente… tenta tutte le strade della mistificazione, poi si arrende alla realtà, per pigrizia, per fame, per sonno, per timidezza, per claustrofobia (che lo assale quando striscia fra le erbe alte), per ignavia. Sarà sopito, mai felice. Egli vive in un apartheid continuo, e del segregato ha la psicologia, dei negri allo zio Tom ha alla fine la devozione, faute de mieux, l’ancestrale rispetto per il più forte.
All’improvviso, in questa enciclopedia delle debolezze contemporanee, ci sono, come si è detto, schiarite luminose, variazioni disimpegnate, allegri rondò dove tutto si pacifica in poche battute. I mostri ritornano bambini, Schultz diventa solo un poeta dell’infanzia.
Noi sappiamo che non è vero e facciamo finta di credergli. Nella striscia che segue continuerà a mostrarci nel volto di Charlie Brown, con due colpi di matita, la versione della condizione umana.

Umberto Eco

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